domenica 28 giugno 2015

LA DIAGNOSI DI AUTISMO

La diagnosi di autismo è una diagnosi clinica, non strumentale 
Pubblicato sulla Rivista “I Care” (n°4, 2013, pagg.125-129)


Introduzione
Una delle situazioni di sempre più frequente riscontro e, nel contempo, soggetta al ripetersi di uno stesso tipo di equivoci, riguarda la definizione diagnostica dell’autismo, e soprattutto i criteri di valutazione cui ispirarsi per formulare tale diagnosi. Intendo riferirmi alla differenza tra diagnosi clinica, diagnosi anatomopatologica, e diagnosi etiologica.
Queste riflessioni prendono spunto da quanto mi è dato di osservare nella pratica quotidiana della mia professione, quando, in occasione di una prima visita foniatrica ad un bambino con ritardo o assenza di linguaggio, e che ha comportamenti e modalità comunicative (e soprattutto non comunicative) di tipo autistico, mi viene spesso riferito dai genitori che “è stato necessario o è in programma un ricovero -a volte anche prolungato- per svolgere indagini e analisi finalizzate all’eventuale formulazione di una diagnosi di autismo”.
A questo punto ritengo necessario proporre un contributo di chiarezza al riguardo.
Parlare di “sindrome autistica” significa dare una definizione a un insieme di manifestazioni cliniche, la cui concomitante presenza ci autorizza, anzi, ci induce, a considerare autistico un bambino che presenta quei determinati sintomi.
Prendendo spunto dal DSM IV (manuale diagnostico dei disordini mentali, redatto in edizioni progressivamente aggiornate, dall’Associazione Psichiatrica Americana), per delineare il profilo diagnostico dell’autismo ci si potrebbe riferire al riscontro, in un bambino, delle seguenti condizioni:
-          Esordio della sintomatologia entro i 30 mesi di età
-          Carenza globale di reattività nei confronti di altre persone
-          Deficit grossolani nello sviluppo del linguaggio
-          Se presenti, forme espressive verbali caratterizzate da ecolalie, stereotipie, inversioni di pronomi, enunciati incomprensibili
-          Reazioni bizzarre a vari aspetti dell’ambiente, come ad esempio resistenza ai cambiamenti, interesse particolare o inusuale attaccamento per oggetti prevalentemente inanimati
-          Aggressività verso se stessi o verso gli altri (non nella totalità dei casi)
-          Mancato o inadeguato raggiungimento di altre abilità non verbali, quali le autonomie, i comportamenti sociali, le capacità di adattamento.
In un mio precedente libro “Autismo, nuovi aspetti diagnostici e terapeutici”, avevo citato anche, tra l’altro, un test che può risultare utile per il riconoscimento della patologia, tratto da Autism Checklist della Autism Society of America, secondo il quale, i soggetti con autismo mostrano spesso i sintomi elencati qui a seguire, con intensità che varia da media a grave, rispettivamente per ognuno:
-          Difficoltà a stare insieme con altri bambini
-          Insistenza sulla costanza
-          Resistenza al cambiamento
-          Manifestazioni di riso inappropriato
-          Mancanza di reale paura dei pericoli
-          Contatto oculare scarso o assente
-          Gioco bizzarro sostenuto nel tempo
-          Apparente insensibilità al dolore
-          Ecolalia (ripetizione di parole o frasi al posto del linguaggio normale)
-          Preferenza a rimanere solo, isolato
-          Mancata reciprocità nelle “coccole”
-          Ruotare gli oggetti in modo ossessivo
-          Mancata risposta alle indicazioni verbali: può sembrare sordo
-          Attaccamento inappropriato agli oggetti
-          Difficoltà ad esprimere bisogni: uso di gesti e indicazione al posto delle parole
-          Episodi di ansia-collera (capricci) senza apparente motivo
-          Evidente eccesso o estrema scarsezza di attività fisica 
-          Mancata risposta ai normali sistemi educativi
-          Abilità grossomotorie e finimotorie incongrue (es.: non giocare a palla ma riuscire nelle costruzioni).
Si tratta dunque di criteri diagnostici ispirati al riscontro di manifestazioni cliniche, cioè sintomi, cioè funzioni: verbali, non verbali, sociali, relazionali, percettive, cognitive… assenti, presenti, presenti in misura e modalità abnormi o carenti, o distorte…; insomma, caratteristiche riscontrabili in un contesto di osservazione diretta, immediata o differita nelle circostanze e nel tempo, ma comunque rilevabili “senza mediazione di mezzi strumentali”, nell’individuo per il quale si sta cercando di definire una diagnosi. Pertanto, ricostruire a livello anamnestico e con adeguate e competenti capacità di osservazione, l’andamento involutivo delle capacità comunicative di un bambino nel corso dei primi mesi o anni di vita, o il mai avvenuto sviluppo di tali abilità, può costituire una base necessaria e sufficiente per formulare una diagnosi “clinica” di autismo, sempre che, naturalmente, venga riscontrata l’effettiva presenza dei criteri diagnostici minimi per tale definizione.
Tutto ciò che proviene da altre forme di indagine, strumentali e di laboratorio, andrebbe processato ed interpretato in maniera diversa da come oggi accade nella maggior parte dei casi generando, a mio parere, una certa confusione, se non addirittura ritardi ed errori diagnostici, con ripercussioni non indifferenti su quello che poi dovrebbe costituire l’obiettivo prioritario di ogni nostro intervento sull’autismo: il trattamento terapeutico e abilitativo.
Questa considerazione nasce dalla constatazione dell’ormai accertata e universalmente riconosciuta multifattorialità delle cause che, in misure, tempi e modalità di azione differenti, possono concorrere a predisporre, innescare, far esplodere, quadri di autismo, peraltro, a loro volta, simili ma quasi mai uguali tra loro, e (aggiunta non meno importante) supportati da basi anatomopatologiche, metaboliche, immunologiche, endocrine…, diverse da caso a caso, o da gruppi di casi a gruppi di casi.
Ne deriva che i criteri diagnostici comuni a tutte le diverse, innumerevoli, variamente combinate forme di autismo, non possono essere rappresentati dai fattori etiologici o dai substrati anatomopatologici, bensì dall’essenziale quanto ben visibile riscontro dei sintomi che caratterizzano i soggetti che li manifestano.


Cause dell’autismo e significato di neurolesione
L’autismo può attualmente definirsi come una complessa sindrome a genesi multifattoriale, certamente non riferibile ad una sola causa, che comunque non fungerebbe da innesco diretto, ma entrerebbe a costituire parte di un più complesso meccanismo dal quale scaturiscono situazioni predisponenti e scatenanti. E quelli che per alcuni individui affetti da autismo possono rivestire un ruolo di fattori predisponenti, in altri soggetti possono comparire come detonatori per l’esplosione della sintomatologia, o viceversa. Estremamente complesso si pone anche il problema della definizione e della classificazione delle cause. Ritengo tristemente risibile l’ancora diffuso fenomeno di cercare, a livello diagnostico, pochi elementi sparsi tra sporadici e ridotti elenchi di possibili fattori etiologici, come ad esempio la presenza di un eventuale anomalia cromosomica tipo “X fragile” (tanto per citare il caso più comune quanto quasi sempre inutile), che equivale al proverbiale ago nel pagliaio, laddove in quel pagliaio, oltre al metaforico ago, si trovano migliaia di altre anomalie cromosomiche, peraltro in costante aumento per effetto di scoperte continue. Lo stesso vale, e in misura fortemente maggiore, per la ricerca dei geni. Peraltro al riguardo urgerebbe un altro clamoroso chiarimento. Intanto direi che non ha senso parlare di “gene dell’autismo”, come ogni tanto si legge sui giornali (anche medici) e si ascolta in televisione! Ne sono state scoperte già centinaia che entrano in gioco nell’innesco di alterazioni riconosciute alla base (diretta o indiretta) di sintomi autistici. E poi il problema credo che non sia tanto individuare quali geni già esistenti possano dare il via alla malattia autistica, quanto piuttosto sia andare a vedere quali alterazioni si siano verificate a carico di geni che controllano a monte lo sviluppo e il normale andamento di funzioni percettive, cognitive, motorie, linguistiche, comportamentali… e anche in questo caso, presupponendo e ricordando che il rapporto tra geni e funzioni da essi regolate, non è semplicisticamente “diretto” come se si trattasse di un interruttore che accende tali funzioni, ma è, piuttosto, “mediato” da altri meccanismi. Solo a titolo di esempio, potrei citare le abilità attentive (tanto carenti in molte forme di autismo e di sindromi ipercinetiche) la cui regolazione genetica passa attraverso l’azione di numerosi geni attivi durante la formazione e lo sviluppo della corteccia prefrontale e dei gangli della base, che sono strutture preposte, tra l’altro, al normale funzionamento di tali abilità; o potrei ricordare la funzione di geni sensibilizzanti i recettori ed il trasporto di neuromediatori, situati nelle suddette zone. Disturbi e alterazioni delle citate abilità, non dipenderebbero dunque dalla presenza di geni che innescano i sintomi patologici, ma piuttosto dal danneggiamento o dal silenziamento dei geni che presiederebbero al controllo di un normale sviluppo delle basi anatomiche e funzionali di tali abilità. Dunque, alla luce di questo e di altre migliaia di modelli esemplificativi, si può affermare che anche il semplice parlare di cause genetiche dovrebbe portare a riflettere sul significato e soprattutto sulla difficoltà se non proprio impossibilità di poter aprire tanto facilmente una finestra completa o comunque ampiamente attendibile, sul mondo di questo tipo di alterazioni. Con ciò non intendo affermare che non ne valga la pena e che non sia il caso di continuare a indagare e studiare (anzi, sono del parere che bisognerebbe approfondire molto di più), ma piuttosto mi preme prendere spunto da queste considerazioni, per sensibilizzare i cosiddetti addetti ai lavori, a non lanciarsi troppo frettolosamente e semplicisticamente in affermazioni del tipo “visto che le indagini svolte sono negative, si può escludere una causa genetica”, poichè le indagini attualmente e solitamente svolte costituiscono probabilmente l’uno per cento di tutto ciò che si potrebbe verificare. Inoltre ritengo che -altro errore nell’errore- essendo ancora in molti a credere, voler credere, voler far credere, che l’autismo abbia “soltanto” una causa genetica, nel momento in cui (sempre tanto sommariamente e frettolosamente) si esclude tale componente, si arriva allora anche a indurre un’esclusione di diagnosi di autismo, visto che non se ne è trovata la causa!
Ancora in tema di genetica e autismo, vorrei anche puntualizzare, nell’occasione, che genetico non necessariamente è sinonimo di irrecuperabile. Considero altrettanto erronea l’affermazione secondo la quale se una malattia è genetica, non è curabile. Alla fine potremmo arrivare ad accorgerci che tutto ha comunque un innesco genetico, in particolare se ragioniamo in termini di predisposizioni genetiche e, soprattutto, se andiamo a considerare anche l’epigenetica, ossia lo studio dei cambiamenti ereditabili nell’espressione dei geni senza cambiamenti del DNA, influenzati dall’ambiente. L’epigenetica diventa così l’anello di collegamento tra due entità che un tempo (e ancora oggi da molti) venivano considerate separate e spesso anche contrapposte: il congenito e l’acquisito. Se invece pensiamo alle tante possibilità che fattori ambientali, esterni, possano modificare il patrimonio genetico di un individuo, possiamo giungere a escludere il concetto secondo il quale “genetico vuol dire solo ereditario” in contrapposizione a ciò che si verifica per effetto di eventi esterni successivi. Questi ultimi possono dunque agire a ritroso sul patrimonio genetico di un individuo, provocando così una sorta di corto circuito tra cause esogene e cause genetiche, così come possono agire provocando danni tossici, metabolici, immunologici, endocrini, biochimici, neuromediatoriali, la cui visibilità può risultare fortemente limitata se non addirittura impossibile; ma non per questo si può negare che tali danni esistano. E qui arriviamo al punto focale del mio ragionamento: la non visibilità macroscopica di un danno organico non può costituire motivo di negazione della sua presenza. Se consideriamo la gran quantità di alterazioni immunologiche, tossiche, biochimiche, neuromediatoriali (siano esse geneticamente determinate, siano esse conseguenza di un evento esterno successivo, siano esse provenienti da entrambe le componenti) in grado di modificare in senso patologico il funzionamento del sistema nervoso centrale dando luogo a diversi quadri clinici a seconda della sede in cui abbiano colpito, i deficit ad esse conseguenti non possono essere negati nelle loro rispettive definizioni cliniche di quadri sindromici, sol perché (come in molti casi accade) non sono state riscontrate anomalie macroscopicamente visibili ad una Risonanza Magnetica, o a una Tomografia Computerizzata, o sol perché la ricerca di un X fragile o di poche alterazioni cromosomiche e geniche (a fronte di migliaia e migliaia non indagate) ha dato esito negativo!
Ho scelto quanto si legge nella prefazione del libro “Biologia delle passioni” (Biologie des passions, Ed. Odile J., Paris, 1986) di  Jean-Didier Vincent, neurofisiologo francese, per esemplificare il concetto secondo il quale non si può parlare di assenza di danno organico solo perché non si rilevano alterazioni cerebrali macroscopicamente visibili. L’autore della prefazione dell’opera di Vincent, scrive: “Inizialmente, quando era ancora terra incognita, il cervello è stato scandagliato da ricercatori provenienti da studi di anatomia e fisiologia ed è stato quindi descritto in termini di circuiti e potenziali elettrici. In questa prospettiva, patologia mentale equivaleva a lesione. Gli esploratori di seconda generazione, provenienti dalla biochimica, dalla biologia molecolare e dalla teoria della comunicazione, nel sistema nervoso vedono soprattutto uno scambio di segnali chimici in codice; la loro immagine della malattia neurologica o psichiatrica è costruita in termini di carenze o di eccessi di mediatori. L’autore, proveniente dalla prima generazione, ma più vicino in spirito alla seconda, trova nel gioco degli ormoni un modo di avvicinare due concezioni che convivono con difficoltà…”. Ecco, a prescindere dalle considerazioni finali sull’ulteriore superamento della visione in termini di fenomeni chimici e neuromediatori con la messa in gioco degli ormoni, a me basta per il momento e per lo scopo del mio articolo, sottolineare il significato del superamento del primo punto, quello cioè secondo il quale, patologia mentale equivaleva a lesione, e aggiungerei, “macroscopicamente visibile”. Il concetto di malattia neurologica e psichiatrica come conseguenza di carenza o eccesso di mediatori, e/o come esito di alterazioni ormonali, può costituire già una motivazione sufficiente per eliminare la concezione di presenza di patologia solo quando si riscontra qualcosa di macroscopicamente evidente nella sua alterazione. Peraltro, rivisitando quelle che oggi sono le cause di autismo (e l’elenco può considerarsi incompleto per difetto!), oltre a problematiche chimiche, neuromediatoriali e ormonali, dovremmo chiamare in causa ancora altre componenti non visibili e non immediatamente identificabili con le canoniche, limitate, tradizionali analisi. Mi riferisco infatti alle alterazioni immunologiche, all’invasione della glia da parte di metalli tossici o di oppioidi endogeni provenienti da dismetabolismi intestinali, come la gliadomorfina e la caseomorfina, tutti fattori, questi, chiamati in causa nella definizione della patogenesi di diverse forme di autismi, e certamente non identificabili con poche sporadiche ricerche di geni e cromosomi alterati, o con qualche isolata misurazione di concentrazioni ematiche di aminoacidi, o con una RMN dell’encefalo.


Considerazioni conclusive
L’elevatissimo numero di cause, meccanismi patogenetici, localizzazioni e tipi di danni organici (questi ultimi, non solo encefalici), costituiscono motivo più che sufficiente per autorizzarci ad affermare che la definizione di “sindrome autistica” non possa essere arbitrariamente vincolata al reperimento e all’identificazione di quelle poche, talvolta singole, specifiche cause, come se soltanto quelle costituissero la base genetica o anatomopatologica di una affezione così vasta ed eterogenea come appunto è l’autismo.
A fronte di centinaia e centinaia di differenti reperti anatomopatologici macroscopicamente visibili con le comuni metodiche di indagine per immagini, e di migliaia di alterazioni geniche e cromosomiche già descritte e pubblicate, vi sono altrettanti e anche più numerosi casi di autismi clinicamente equivalenti a quelli per i quali è stata identificata un’origine o documentata una lesione, che invece non sono corredati da altrettante “prove” di laboratorio o di gabinetto di radiologia, ma non per questo “meno autismi” di quelli in cui le analisi hanno dato qualche riscontro. Ci sarebbe peraltro da chiedersi se poi davvero quelle alterazioni evidenziate abbiano un rapporto causale o piuttosto “casuale” con i quadri clinici concomitanti.
Personalmente sono solito affermare che la validità e l’utilità di ogni tipo di indagine (comprese quelle autoptiche) andrebbe vista più a beneficio di chi viene visitato successivamente, che di chi è oggetto al momento di tale indagine. Spesso ai genitori del bambino che ho davanti a me in visita, dico che ciò che studierò sul loro figlio servirà soprattutto ai bambini che vedrò nei prossimi anni, mentre al loro piccolo serve tutto ciò che ho studiato e che è stato studiato nei bambini venuti prima di lui.
Accorgersi di trovarsi di fronte ad un bambino con autismo, sia esso conclamato o sia esso in via di esplosione nella sua drammaticità sintomatologica, impone a mio parere un’immediata sensibilizzazione verso il problema da un punto di vista clinico, e impone l’avvio verso un immediato, intensivo e competente percorso rimediativo-abilitativo. Fermarsi a indagare tra cromosomi e geni, risonanze magnetiche e dosaggi di aminoacidi, non modifica quella che considero la priorità assoluta: attivare nel bambino tutte le funzioni che sono assenti o alterate a causa del suo autismo o comuqnue dello stato patologico in cui si trova, indipendentemente dal numero del cromosoma dal quale possa essere originato, o dalla localizzazione cerebrale in cui possano essersi alterate determinate funzioni. Affermo tutto ciò, soprattutto se un mancato riscontro di alterazioni documentabili (nella precarietà e nella limitatezza delle attuali possibilità di indagine), diventa poi occasione o pretesto di mancata diagnosi di autismo, che è, appunto, essenzialmente una diagnosi clinica.
 

 

Nessun commento:

Posta un commento