sabato 31 maggio 2014

"Dottore, nostro figlio non parla ancora"

“Buongiorno Dottore”.
“Buongiorno signori, perché siete qui?”.
“Perché il nostro bambino che ormai ha quasi tre anni, non parla, riproduce solo poche paroline di due sillabe, ma ci preoccupa anche perché gioca poco o nulla con gli altri della sua età, e tende a stare sempre da solo”.
“E’ la prima volta che consultate un sanitario per questo problema?”.
“A dir la verità ci eravamo rivolti al pediatra già un anno fa, perché anche allora il nostro bambino non parlava, ma il pediatra ci ha detto di non preoccuparci, perché non tutti i bambini sono uguali, e ognuno ha i suoi tempi. Ma noi ora siamo preoccupati, e di nostra iniziativa siamo venuti da lei, specialista foniatra”.
“E avete fatto bene, perché, ancora prima di vedere vostro figlio, vi dico subito che non è esatto affermare che ognuno ha i suoi tempi. I tempi di normalità esistono, e se non vengono rispettati, significa che qualcosa non sta procedendo nel verso giusto”.
“Noi temiamo che il nostro bambino stia sviluppando l’autismo; ma anche in questo c’è chi ha affermato che a due o tre anni è presto per parlare di autismo”.
“E io invece contesto anche questa affermazione, perché per definizione l’autismo insorge entro i trenta mesi di vita. E’ una definizione che non ho deciso io, ma universalmente riconosciuta e scritta nel nomenclatore ufficiale mondiale delle patologie neurologiche e psichiatriche. Dunque, non si può dire che esista un presto per diagnosticare o almeno ipotizzare una diagnosi di autismo. Anzi, più presto si provvede, soprattutto con la terapia, maggiori possibilità di successo si hanno”.
“Ma come si fa a diagnosticare l’autismo?”.
“La diagnosi di autismo è soprattutto una diagnosi clinica, basata cioè sul riscontro della presenza dei sintomi tipici di questa patologia, quali la mancanza di linguaggio o la sua presenza in forma molto ridotta e distorta; l’evitamento del rapporto con altre persone; la tendenza all’isolamento; la presenza di stereotipie, cioè movimenti ripetuti continuamente e senza un fine; la mancanza di contatto oculare; il ritardo di acquisizione delle autonomie fondamentali; e a volte l’ipersensibilità verso rumori, o luci, o contatti con la pelle; a volte l’impaccio motorio; a volte l’aggressività verso se stessi o verso gli altri.”
“Di tutto ciò che ha elencato, nostro figlio ha tutti i sintomi, tranne l’aggressività. Dunque lo si può considerare nello spettro autistico?”.
“In base a queste premesse, direi di sì; comunque adesso vorrei visitarlo personalmente ed esprimermi con una maggiore disponibilità di informazioni”.
“Che cosa gli farà? In che consiste la visita?”.
“Come vedete non indosso camici o abbigliamento che riporta all’ambiente ospedaliero; adesso mi seggo a terra di fronte a lui e comincio a cercare di interagire, tentando di agganciare il suo sguardo, attirando garbatamente la sua attenzione con un giocattolo o semplicemente toccandogli le mani per poi instaurare un contatto anche fisico; e via via cerco di proporgli qualche verbalizzazione invitandolo a chiamare voi genitori o a ripetere primi semplici modelli verbali… Ovviamente non basterà solo questo, ma comincio a farmi un’idea della situazione, perché se i primi segni sono evidenti, vi suggerirò di portarlo subito in terapia”.
“Ma ci hanno detto che se un bambino non è collaborante non gli si può insegnare a parlare”.
“Altro errore anche questo! Quale bambino di pochi anni di età con un piede o entrambi nell’autismo, risulterebbe collaborante? Sono i terapisti che devono coinvolgerlo e renderlo recettivo al loro intervento, e anche se questo non avviene (almeno apparentemente) bisogna comunque agire, perché solo ciò che viene realizzato nei primissimi anni di vita può sortire effetti concretamente favorevoli”.
“Dunque ci sono speranze per il nostro bambino, che un domani possa parlare e diventare come gli altri?”.
“Più presto si comincia a lavorare, più si lavora, più speranze di recupero ci sono. Ricordatelo sempre, e non date ascolto a chi minimizza il problema e vi invita a rinviare l’inizio di un percorso abilitativo”.


Avete letto il contenuto-tipo di una delle più frequenti situazioni che si verificano quasi quotidianamente nei miei studi di consultazione.


Aggiungo un articolo pubblicato nel 2009, e tutt'ora presente in molti siti e blog, data la sua perenne attualità:

LOGOPEDIA? NON E’ MAI “PRESTO”!
In riabilitazione non esiste il “presto”.
Purtroppo, spesso, c’è ancora il “tardi”.
Partiamo da queste due brevi frasi per cercare di capire che cosa di assurdo e dannoso accade ancora in Italia nella gestione terapeutica abilitativa dell’handicap (e chiamiamolo con il suo vero nome, senza penose perifrasi).
Nella maggior parte dei casi, chi si rivolge con un bambino di pochi anni di età, agli operatori -che sarebbe più consono definire “burocrati” delle asl- preposti all’erogazione delle sedute di riabilitazione, si sente rispondere che è ancora “presto” per avviare un trattamento logopedico, e che il bambino deve prima maturare determinate capacità attentive, cognitive, relazionali…
Non a caso non ho specificato con quale tipo di patologia viene avanzata una richiesta di logopedia poi disattesa da chi dovrebbe invece accoglierla. Non l’ho specificato perché la necessità di un intervento tempestivo, direi anche immediato, vale per tutte le situazioni in cui è richiesto un trattamento abilitativo. E’ comprensibile, poi, che tale necessità diventi ancora più pressante se si parla di sordità profonda, di autismo, di paralisi cerebrale.
La situazione di mancata tempestiva erogazione di trattamenti precoci, viene poi ulteriormente aggravata dall’ignoranza in materia di numerosi appartenenti ad altre categorie professionali, primi tra i quali, i pediatri ed i logopedisti stessi, di cui molti sono i primi a non sapere quanto sia importante agire al più presto per ottenere risultati determinanti per il recupero di un handicap.
Alla base di queste gravi mancanze io vedo la disinformazione, la presunzione (strettamente collegata all’ignoranza), la mancanza di volontà di studiare, aggiornarsi e mettersi costantemente in discussione.
Basterebbe che i pediatri di base, i burocrati delle asl, i logopedisti che vivono esclusivamente per attendere lo stipendio di fine mese, si documentassero su quali sono tutti i campi di azione della logopedia, e su quali brillanti risultati si possono ottenere lavorando precocemente, intensamente, ed in modo competente su qualsiasi tipo di handicap, per veder cambiare significativamente le possibilità di recupero di tanti bambini.
L’assurdo è che al giorno d’oggi, molti preferiscono ancora negare l’esistenza di clamorosi recuperi nel campo dell’autismo e delle paralisi cerebrali, definendo visionari e bugiardi quelli che li ottengono e lo rendono noto, piuttosto che guardarsi intorno e constatare ciò che invece è possibile ottenere operando tempestivamente, alacremente e con professionalità. Ma tutto ciò è scomodo. Scomodo per gli “erogatori” da scrivania e per i pediatri di base, che dovrebbero alzarsi dalle loro poltrone, uscire dagli uffici, ed andare a toccare con mano i successi di chi lavora applicando i criteri di tempestività e competenza; scomodo per i logopedisti e per gli altri terapisti che hanno come obiettivo unico il suddetto stipendio fisso e non certo la qualità del lavoro, il cui incremento comporterebbe anche un aumento di impegno, di sforzi, nonché di aggiornamento. Certamente è più facile trattare il bambino con qualche difetto di pronuncia, o con ritardo al quale non sono state date speranze, piuttosto che rimboccarsi le maniche su una paralisi cerebrale o su un autismo caso mai aggravato anche da comportamenti aggressivi…
Per quanto riguarda l’ignoranza su ciò che realmente può essere trattato con la logopedia (ignoranza che mai, comunque, è giustificabile), va detto che ancora oggi la logopedia viene vista -o la si vuole vedere- soltanto come una possibilità di correzione di un linguaggio già esistente, e preferibilmente da realizzare su di un bambino che sia tranquillo e collaborante. E questo è l’errore (in buona parte voluto) più diffuso anche tra gli stessi logopedisti; errore che preclude i maggiori e più importanti recuperi nell’ambito delle patologie più impegnative.
Logopedia non è dunque soltanto un aggiustamento di forme espressive già esistenti.
Un intervento foniatrico-logopedico correttamente inteso e realizzato, comprende una presa in carico globale di un individuo con problemi di comunicazione, laddove con questo termine intendiamo una serie di inadeguatezze riguardanti uno o più di uno tra i livelli percettivo, cognitivo, comportamentale, motorio-espressivo. Una presa in carico precoce, direi immediata, di un bambino danneggiato in una o più aree di quelle citate, può sortire effetti sorprendentemente brillanti. Una funzione percettiva, cognitiva, motoria… che è stata lesa, alterata, interrotta, ha tante maggiori speranze e possibilità di essere recuperata, quanto più presto, più intensamente e più adeguatamente si interviene per riattivarla e farla rifunzionare nella giusta direzione e nelle corrette modalità. E’ un principio fondamentale di ogni forma di riabilitazione, purtroppo ancora disatteso e tradito da tanti indegni operatori del settore.
Infine una nota di speranza anche per i soggetti di età più avanzata, a loro volta vittime di un luogo comune secondo il quale, oltre un certo numero di anni, non è più il caso di intervenire perché non ci sono possibilità di recupero (tra l’altro, a farci caso, quando il bambino è piccolo si dice che “è presto” per cominciare la logopedia; quando è più cresciuto, gliela si rifiuta perché “è tardi”). Nell’ultimo decennio, infrangendo questo diffuso atteggiamento non interventista, abbiamo aperto le porte della logopedia anche a pazienti di età adolescenziale e adulta, con esiti di paralisi cerebrale e sindromi autistiche. La piacevole sorpresa è stata quella di constatare che, pur non raggiungendo gli stessi brillanti risultati ottenibili con interventi realizzati su bambini di pochi anni di vita, tuttavia nei più cresciuti si riusciva comunque ad attivare funzioni (in alcuni casi anche quella linguistica) che solitamente si davano per irrecuperabili.
Necessiterebbe dunque un più equilibrato atteggiamento prognostico ed interventista da parte di chi opera nella riabilitazione, assumendo una posizione che, lungi dall’essere trionfalmente eccessivamente ottimistica, sia tuttavia più aderente ad una realtà arricchitasi della constatazione di brillanti successi raggiunti da chi, abbandonando atteggiamenti rinunciatari e sedentari, si è rimboccato le maniche dimostrando che lavorando tanto, presto e bene, si possono ottenere risultati che molti ritengono ancora impossibili.

Prof. Massimo Borghese - Foniatra

Attualità in tema di epidemiologia, diagnosi, prognosi e trattamento delle sindromi autistiche



Il grande aumento dei casi di autismo infantile in tutti i paesi del mondo, si presta inevitabilmente ad una revisione dei fattori epidemiologici, etiologici, clinici, prognostici, terapeutici, di una così complessa patologia intorno alla quale si sono sviluppati in questi ultimi anni numerosissimi approfondimenti spesso anche contrastanti tra loro in molti aspetti.
Al fine di cercare di dare un contributo alla ridefinizione delle sindromi autistiche, sotto tutti i punti di vista e di inquadramento, vorrei riportare, basandomi su rilievi estraibili da un arco di tempo di venticinque anni, alcuni elementi emersi da un’osservazione clinica, supportata da valutazioni statistiche e da follow up effettuati anche allo scopo di confermare o smentire quanto di volta in volta ipotizzato durante la mia esperienza diretta, o segnalato da altri ricercatori e operatori del settore.
I principali punti di riferimento per l’analisi in questione, sono riconducibili al complesso problema delle cause, dei meccanismi patogenetici, delle localizzazioni dei danni organici, delle manifestazioni cliniche, delle scelte e degli effetti delle terapie, non solo per avallarne o meno l’efficacia, ma anche per pronunciarsi in termini prognostici nei confronti di una patologia troppo spesso e talvolta affrettatamente definita come insormontabile e irrimediabile.
I risultati (da considerare mai definitivi!) di una lunga e approfondita serie di rilievi e analisi quali- quantitative, sono riassumibili per linee essenziali e per riferimenti di maggior interesse pratico, nei seguenti punti:
     Non è più possibile parlare di cause di autismo solo come innesco genetico. Malattie esclusivamente genetiche hanno andamenti epidemiologici costanti. L’aumento del 700% dei casi di autismo in tutti i paesi del mondo, disattiva di fatto la teoria che possa trattarsi di una patologia di sola origine genetica, spingendo a prendere in considerazione il concorso di fattori esterni, ambientali, alimentari, infettivi, tossici, farmacologici; e inducendo altresì a pensare anche alla “epigenetica”, ossia alle modifiche del patrimonio genico legate non alla trasmissione attraverso DNA, bensì all’effetto delle influenze ambientali. 
     Gli organi e apparati danneggiati nei diversi “autismi”, risultano essere soprattutto l’encefalo (cervello, cervelletto, tronco encefalico), il sistema digerente, l’apparato immunitario, il sistema endocrino; in misure e combinazioni diverse da caso a caso o almeno da gruppi di casi a gruppi di casi.
     Le manifestazioni cliniche delle sindromi autistiche hanno insorgenze molto precoci: dai primissimi mesi di vita nelle forme cosiddette primitive, ai quindici-diciotto mesi nelle forme cosiddette regressive. Ma in una situazione come nell’altra, non esiste un “presto” per pronunciarsi in senso diagnostico, e non vi possono essere ormai più giustificazioni per una ritardata diagnosi di autismo.
     Ne consegue la necessità di prese in carico terapeutiche immediate e precoci, senza rinvii inutili e dannosi. Statistiche alla mano, possiamo affermare che la maggiore percentuale di recuperi significativi di soggetti autistici, coincide con i parametri: immediatezza, intensività, qualità di intervento.
     In un’ampia e significativa percentuale di casi (tra il sessanta e il settanta), il ricorso a provvedimenti alimentari e a trattamenti biomedici, ha migliorato notevolmente le capacità di risposta dei soggetti autistici alle terapie abilitative riabilitative educative.
     Protagonista dei protocolli terapeutici deve essere l’intervento logopedico, da considerarsi fondamentale, improcrastinabile, e dunque non subordinato né nel tempo né nell’attesa di risultati, a qualsiasi altra forma di terapia. Affiancare, sì, ma non anteporre altri trattamenti rispetto a quello logopedico, da intendere peraltro nella sua piena realizzazione su tutti gli aspetti del profilo comunicativo: percettivo, cognitivo-integrativo, motorio-prassico-espressivo, relazionale-comportamentale.
     Non è vero che i sintomi dell’autismo non solo estinguibili. Trattamenti precoci, intensivi, competenti, possono consentire a un soggetto autistico, di diventare comunicativo, verbale, autonomo, socialmente compatibile, scolarizzabile, inseribile nel mondo del lavoro. Ciò non vuol dire il raggiungimento di una perfezione prestazionale o il superamento della patologia da parte di tutti; ma l’attuale provata e documentata esistenza di bambini riconosciuti inizialmente autistici, e migliorati al punto da aver estinto quelle sintomatologie, autorizza a credere e a investire in un lavoro di recupero a tutto campo, senza preclusioni e pregiudizi sulla sua possibilità di riuscita.
     Resta infine un tema aperto e da approfondire nel tempo: il nesso tra autismo infantile, sua evoluzione nell’adolescenza, e psicosi dell’età adulta. Analisi e verifiche retrospettive ci autorizzano a ipotizzare legami tutt’altro che trascurabili tra autismo (e altre psicosi dell’età evolutiva) e patologie psichiatriche dell’età adulta. Da qui, l’invito ad altri studiosi della materia, a orientare anche in questa direzione le loro ricerche.